Sybell

DAL BUIO ALLA LUCE: COME LA MUSICA E LA SCRITTURA MI HANNO SALVATO LA VITA (PT 1)

Quando si scrive qualcosa, la parte più difficile è la carta bianca, vergine. Ho sempre avuto quel “piccolo terrore” del foglio bianco quando scrivevo i miei libri (sì, lo sanno in pochissimi, ma ho passato gli anni della mia adolescenza a scrivere romanzi fantasy). Mi succede ancora, qualche volta, quando scrivo gli articoli per questo blog. So quello che voglio dire ma… Come inizio?

Questo “piccolo terrore” è diminuito parecchio rispetto a un tempo, credo perché ho ripreso contatto col mio corpo, grazie a diverse attività e pratiche, e sento il mio radicamento crescere di anno in anno. Questo mi ha riportata ad avere fiducia nel mio istinto e dunque a ritrovarmi praticamente sempre ispirata, feconda… “In connessione” con qualcosa che non so spiegare, ma che percepisco ogni volta che scrivo o compongo musica. Mi siedo, inizio a scrivere, senza più pianificare come facevo un tempo, senza più pensare troppo, e mi fido: so che arriverà ciò che è giusto per me, in quel momento. Anche la poesia è stata un farmaco potente per rimettermi a contatto con la mia “parte terrena”.

Le poesie per me sono un parto viscerale, impaziente, estremamente naturale, urgente come andare in bagno. Penso di averne sempre scritte, ma non me ne sono resa conto fino ai quattordici anni. Quand’ero più piccola componevo rime dissacranti e ironiche che dedicavo ai miei amici e ai miei familiari per farli ridere. Alle elementari creavo dei giornali comici, con notizie inventate sulle maestre, le catechiste e i “personaggi” del paese. Se penso agli anni ancora precedenti, col pc con Windows 3.1, dismesso dall’ufficio di papà, scrivevo su Paint dei piccolissimi racconti, rielaborando quello che vedevo in televisione. Ho sempre scritto. Ha sempre fatto parte di me.

Ma sto divagando: torniamo alle poesie. Non penso ad un concetto quando le scrivo: scrivo e basta, per me sono il cuore e le viscere che cantano. Le rimaneggio solo prima di pubblicarle, poco, lo stretto necessario. Ritengo che la rappresentazione dell’emozione (o meglio, il suo tentativo) sia sacra e perfetta così com’è, in quell’istante. Non devo giustificare niente a nessuno, non devo “seguire una formula” per avere successo o dimostrare qualcosa. Per questo ho deciso di pubblicare la mia prima raccolta, “Il marinaio o altrimenti detto gioco al massacro”, su lulu.com in maniera completamente indipendente, senza una distribuzione: cercavo verità e non compromessi. Ho stampato poche copie, pagandone ogni centesimo di tasca mia, e man mano le ho vendute ai concerti ed alle letture.

E’ andata molto meglio di quanto mi aspettassi. Non tanto per le copie vendute, il cui unico scopo è quello di reinvestire i ricavi in altre copie, quanto per ciò che le persone mi hanno detto, dopo aver letto il libro. Ho dato loro qualcosa. Ho dato loro degli spunti per affrontare il loro dolore, condividendo il mio. L’andare oltre, il mettersi in viaggio, in moto. Ho smosso qualcosa! Dal mio minuscolo granello di sabbia, ho contribuito a produrre un cambiamento. E’ il regalo più grande che potessi ricevere dalla pubblicazione di questo liberculus.

Il viaggio… Che cos’è il viaggio? Ho sofferto tantissimo nella mia vita. Ho sempre sentito tutto sulla carne viva. Fin da piccola, ogni parola ed ogni gesto potevano essere uno schiaffo o un caldo abbraccio. Ero una bambina molto attenta a captare le sensazioni e le reazioni delle persone nel mio ambiente. L’adolescenza poi mi ha insegnato ad entrare in contatto anche con le mie. Ho scelto di continuare a sentire, sempre. Ho perciò dovuto imparare a gestirlo. Ci sono tante altre strade di sopravvivenza psicologica (conscia o inconscia): c’è chi sceglie di non sentire, c’è chi sente ma vomita tutto all’esterno o punta il dito, a caccia di streghe, schiumando dalla bocca rabbia narcisistica, c’è chi si barrica in una fortezza di paura e morte per tumularsi vivo, e via dicendo. Non c’è una scelta migliore o peggiore: siamo tutti stati dei bambini che hanno cercato delle soluzioni per sopravvivere all’ambiente in cui erano nati.

Questo è un punto fondamentale. “Sii gentile, ogni persona che incontri sta combattendo una dura battaglia” (Ian Maclaren). La pietà. Questo viaggio, specie negli ultimi mesi, mi sta insegnando la pietà e la compassione, per mettere da parte il giudizio, anzitutto nei confronti di me stessa e poi degli altri. Fare pace con se stessi è infatti la parte più difficile del viaggio. Forse anche la più bella, aggiungo. Sentire finalmente un po’ di serenità per me è un enorme, piccolo traguardo.

Non è sempre stato così: io nasco nel buio. Sono sempre stata affascinata da tutto ciò che concerne la morte: i libri di biologia e zoologia che leggevo in soffitta da piccola, studiando le vite/morti del mondo animale, i romanzi di Anne Rice sui vampiri che hanno sconvolto la mia tarda adolescenza, le poesie di Poe, l’esoterismo, la psicologia, il romanzo gotico, gl’incubi su Dracula che hanno perseguitato le notti dei miei primi quindici anni di vita, le creature mitologiche, fantastiche, gli altri mondi, reali e immaginari, gli Altri Dei, la storia antica, i Maya, gli Aztechi, le civiltà nascoste, Atlantide, il culto della Grande Madre. Potrei continuare così per ore: mi affascinava tutto ciò che non c’era più o che era a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, la “via che sta in mezzo”.

Arrivavo da una famiglia con una grande cultura scientifica e, dall’altro lato, ero un’avida lettrice di romanzi, fin dalle elementari, tanto che gli anni delle medie li passai a leggere tutti i libri di Tolkien pubblicati sino a quel momento. Il Silmarillion per me, appassionata di mitologia, era pura poesia. A casa c’erano tantissimi libri e, per mia fortuna, la biblioteca di paese era sempre piuttosto libera da “intrusi”. Vi trovai parecchi libri sulle civiltà precolombiane e sulla mitologia celtica e i Mabinogion, alle quali mi appassionai per un buon numero di anni.

Gli interessi dei miei coetanei non m’interessavano. I miei genitori scelsero (saggiamente!) di farmi andare alle medie in un’altra città e nel farlo persi gran parte degli “amici” che avevo. Non perché non li frequentassi più, ma proprio perché colsero la palla al balzo per escludermi. Quando andavo a catechismo le mie vecchie amiche non mi salutavano nemmeno. I prodromi dell’esclusione erano presenti già prima, in quanto ero sempre stata un po’ “strana”: parlavo poco, osservavo, fissavo, mi vestivo molto umilmente (tanto da essere presa in giro) e non me ne fregava nulla di ciò che interessava alle mie coetanee. Ero diversa. 

Quell’esclusione fu molto dolorosa. Rimasero solo pochi amici fedeli, che vedevo ogni tanto. Per il resto, la gran parte del tempo la passavo da sola. Iniziai a scrivere il mio primo romanzo fantasy, allargandolo man mano con varie appendici ed excursus geo-politici delle varie razze che abitavano i miei mondi immaginari. Stavo diventando un’adolescente silenziosamente incazzata e combattuta. Perciò in quei mondi c’erano guerra e sangue: lotte tra il Bene e il Male, creature redivive, streghe, tre ragazzini predestinati con una missione da compiere, angeli, creature marine, distruzioni e costruzioni. Era un mondo ricco, pericoloso, a cavallo tra la fiaba e l’incubo, che però mi permetteva di godere di una libertà assoluta: l’unica regista e protagonista ero io. Vivevo attraverso i miei personaggi e potevo sporcarmi le mani quanto volevo, senza produrre alcun danno fisico. Mi sono resa conto solo molti anni dopo di quanto la Scrittura mi abbia salvato la vita, in quel momento, proprio come avrebbe fatto la Musica, un po’ di tempo dopo. 

[FINE PRIMA PARTE, CONTINUA NELL’ARTICOLO DI DOMANI! ;)]

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